La pizza dopo “Report”

Dopo la trasmissione di Report si è aperto un grande dibattito sulla pizza in genere. Il reportage ha analizzato la pizza napoletana realizzata con il forno a legna, evidenziando molti problemi legati a questa tipologia di prodotto e alla sua realizzazione.
Premesso che qualunque sia la pizza in questione, e qualsiasi tecnica di produzione si possa prendere in esame nulla toglie alle denunce fatte dalla redazione di Report riguardo l’igiene nei laboratori, la qualità delle materie prime e le tecniche di produzione.
Napoli rappresenta da sempre l’immagine della pizza. Ai napoletani si deve il marketing della pizza nel mondo, ma la pizza napoletana non rappresenta “La pizza italiana”, è e resterà sempre una pizza regionale o come meglio definita LA PIZZA PARTENOPEA.
Il filmato trasmesso su Rai3 ha evidenziato alcuni aspetti che mi preme sottolineare e che forse ancora oggi non sono ben compresi dai pizzaioli in forze alle pizzerie italiane. Credenze popolari come il fumo della legna che arde non fa male, o la farina bruciata nel forno non è cancerogena, oppure l’olio di oliva troppo grasso, la farina usata solo Manitoba o americana che dir si voglia, materie prime come pomodori San Marzano che vengono venduto all’estero mentre in Italia si usano quelli di importazione, mozzarella fiordilatte realizzata con latte comunitario mentre si dichiara latte italiano ecc. ecc.

Queste dichiarazioni rese pubbliche nel servizio giornalistico denotano innanzitutto la poca professionalità che il mondo della pizza dedica a questo prodotto che in tempi di crisi sta sorreggendo le sorti della ristorazione italiana. Quando ci chiamano a fare sacrifici preferiamo trovare tutte le scorciatoie possibili e immaginabili per abbassare la qualità delle materie prime per pizza, senza contare sulle conseguenze che questo nostro modo, tutto italiano, può portare al mondo pizza.
Ma responsabile di questo nostro essere poco nazionalisti, dipende anche dalle aziende che della pizza si nutriscono in termini economici, poiché molte sono le aziende molitorie, di attrezzature ecc. che fanno formazione per il settore veicolando gli allievi pizzaioli al consumo di prodotti che loro stessi producono. Puro business, quindi nulla di male in tal senso se non fosse, (cosa molto importante) che molte tecniche di lavoro proposte da questa formazione danno un grande contributo a modificare le regole codificate della panificazione, rendendo i metodi di produzione della pizza un pupurry di nozioni che confondono sempre più la realizzazione di una pizza di qualità.
I giovani pizzaioli che si definiscono preparati sono pieni di paroloni del tipo impasti poolish, staglio, appretto, lunga maturazione degli impasti, riposo a temperatura controllata, capacità panificabile della farina, ecc. ecc.

Tutte nozioni vere e importanti poi però nella pratica queste, ed altre informazioni altrettanto importanti, vengono inserite nel processo di produzione in modo errato.
Oggi i molini e i pizzaioli sono proiettati nell’utilizzo di farine molto forti (Manitoba o americane che dir si voglia) le quali hanno una notevole quantità di nutrienti che possono creare problemi alla salute del consumatore se non correttamente utilizzate. Carboidrati e proteine possono creare scompensi fisici all’organismo in quanto un eccesso dei primi possono attivare il diabete mentre le seconde, se in eccesso, possono creare flauto lenza, gonfiore per non parlare di malattie come la celiachia ecc. Questa moda tutta attuale di produrre pizza con farine di forza, si scontra con la nostra tradizione agricola perché (qualcuno me lo spieghi) quali sono i grani di coltivazione nazionale che possono superare una W di 350 -360. Nessuno. Se poi aggiungiamo che anche in America le prime farine aggiustate in laboratorio per avere proprietà reo logiche adatte hai vari impieghi di pasticceria, risalgono al 1945, mentre in Italia le prime farine americane sono arrivate rigorosamente dopo la seconda guerra mondiale. Mi piacerebbe sapere nella tradizione popolare italiana con quali farine erano prodotte le pizze vendute prima di questa epoca.

Se parliamo poi di lievitazione, oggi si tenta di far passare il messaggio che; 1 grammo di lievito industriale su 1 kg di farina o, peggio ancora su 1 litro di acqua è la regola; qualcuno mi dica qual è la pizza lievitata che si mette in commercio?. Il Prof. Giovanni Quaglia nel suo libro “Scienza e tecnologia della Panificazione” già nel 1975 parlando di lievito industriale (comunemente lievito di birra) annotava che se utilizzato in percentuale minore del 2%, la sua riproduzione diminuisce del 50%, mentre quantitativi superiori non permettono la crescita. Rilevava altresì che l’utilizzo di sostanze (aromi, olio di limone, cioccolato e polvere di cacao) aggiunte agli impasti diminuiscono la capacità fermentativa dei lieviti, per cui in tal caso il 2% di lievito rappresenta un quantitativo troppo piccolo.
Mi piace dover credere a ciò che il professore ha scritto perché lo reputo uno scienziato, ma vorrei anche capire perché i pizzaioli moderni credono che una quantità irrisoria di lievito sia sufficiente a produrre una ottima lievitazione dopo aver tenuto la pasta in frigo per 72 ore.

Maturare gli impasti è un atto di buon lavoro ma poi occorre tenere a temperatura ambiente tutte le ore necessarie che il farinografo di Brabender indica come tempo ottimale di lievitazione. LA BUONA LIEVITAZIONE DÌ UNA PIZZA, REALIZZATA CON FARINA MANITOBA, DOPO LA MATURAZIONE, DEVE RESTARE A TEMPERATURA AMBIENTE ALMENO 24 ORE, PRIMA D’ESSERE CONSUMATA. QUESTA E’ UNA PRASSI CORRETA DELLA LIEVITAZIONE.
Continuando a parlare di lievitazione, oggi sempre più, si confondono metodi di lavorazione applicabili ad impasti realizzati con lievito naturale, utilizzati per il lievito industriale e viceversa, senza considerare che la lievitazione per effetto del lievito industriale è una fermentazione alcolica, mentre quella del lievito naturale si definisce malo lattica. Due reazione molto diverse in termini di proprietà fermentative degli impasti, capaci di dare proprietà digestive alla pizza, differenti e qualitative nel caso siano gestite in maniera tecnica precisa da un modo approssimativo.
Sulla poca conoscenza di queste differenze molte aziende e anche professionisti del settore giocano per convincere il pizzaiolo a usare una tecnica anziché un'altra più favorevole a chi consuma pizza.
Sperimentare è d’obbligo per cercare di offrire al mercato nuovi prodotti di alta qualità, facilmente digeribili, appetibili dal punto di vista dell’aspetto sensoriale. Per ottenere questi risultati occorre perseguire strade diverse da quelle che oggi si stanno percorrendo. I prodotti del territorio, le eccellenze italiane, la rivalutazione di materie prime desuete o quasi dimenticate, abbinate a corrette prassi tecniche di lavorazione possono fare quella differenza che l’agricoltura italiana possiede e che è in copiabile per qualsiasi altra parte del pianeta.

E’ necessario che il pizzaiolo acquisiscano la consapevolezza che non si produce reddito aziendale con la corsa alle mode che l’industria del settore mette a disposizione, ma devono essere convinti delle loro capacita professionali, le quali, applicate al prodotto pizza fanno la reale differenza sul mercato. Io mi domando:
1. perché i tecnici della grande industria alimentare vanno alla ricerca di attrezzature sempre più sofisticate per la produzione dei loro prodotti?,
2. perché si utilizzano impastatrici a braccia orizzontali, ad aspi, Morton, ad asse orizzontale, impastatrici a doppie braccia, a doppio aspo, impastatrici ultra veloci, impastatrice continua, quelle planetarie, macchine con una varietà infinita di organi impastanti diversi?
3. Perché le università ancora studiano su come sia possibile realizzare un impasto perfetto?

Oggi parlare di qualità, di leggerezza, di digeribilità del prodotto, presuppone un vero impegno formativo nel settore pizza che ancora non esiste in quanto sul territorio italiano si propongono molteplici filosofie scolastiche che tendono a valorizzare solo ciò che è nell’interesse di chi ha messo in campo queste unita formative.

PER UN VERA PIZZA DI QUALITA’ OCCORRE CHE I PIZZAIOLI ITALIANI CAPISCANO L’IMPORTANZA DI UNIRE LE FORZE E DAR VITA ALLA VERA PIZZA ITALIANA DIFENDENDO L’APPARTENENZA NAZIONALISTA DELLA FILOSOFIA ALIMENTARE ITALIANA APPLICATA ALLA PIZZA.

Massimo Montanari nel “Storia della Gastronomia” editori La Terza, ci trasmette che nell’antica Mesopotamia (Circa 6000 anni fa) si producevano per la tavola di corte, 300 tipi di pane e si conoscevano 34 tipi di birra. Certamente a quell’epoca non si avevano conoscenze tecniche come la civiltà moderna, per cui se noi non mettiamo in campo il nostro sapere, come potremmo mai definirci professionisti rispetto a chi in epoche remote erano capaci di tanto mestiere?